Ayen Oztürk è una rivoluzionaria giornalista turca, rapita dalla polizia segreta turca mentre si trovava nell’aeroporto di Beirut, in Libano.
La sua storia è molto speciale perché si è trovata implicata in un processo con false prove da parte dell’accusa e ora è agli arresti domiciliari dopo 6 mesi di tortura in un centro di detenzione segreto e tre anni e mezzo in prigione.
La prima domanda che vorrei farti, Ayten, è di raccontarci la tua storia, le tue origini e di quello che facevi prima del tuo rapimento.
Prima di tutto grazie per avermi dato l’opportunità di raccontare la mia astoria e le ingiustizie che avvengono nel mio paese.
Nei sei mesi in cui sono stata rapita e tenuta in un centro di tortura segreto, non mi sono mai sentita sola. Ho sentito che il mondo e il mio paese era accanto a me. Voglio ringraziare anche le persone in Italia che hanno raccontato queste violazioni di diritti umani. Durante i sei mesi di detenzione e isolamento, i miei carcerieri mi ripetevano sempre che nessuno mi stava cercando e che a nessuno importava di me.
Sono nata il primo dicembre 1974 ad Antiokia, la mia famiglia ha nazionalità araba ed è democratica e alevita. Siamo 14 fratelli e sorelle cresciuti in una famiglia povera. Ho frequentato le scuole fino al ginnasio / liceo ad Harbiye poi due anni di università con indirizzo turistico a Beysehir a Konya.
Mio fratello e sorella maggiore Ahmet Oztürk e Hamide Öztürk erano rivoluzionari. Anche la moglie di mio fratello era una rivoluzionaria.
Nel 1994 mio fratello Ahmet è stato giustiziato nella sua casa a Mersin mentre era con un suo amico studente Zeynep Gültekin. Entrambi uccisi dalla polizia.
Nel 1995 sia mia cognata che mia sorella sono state arrestate e portate nella prigione di Bayrampaşa
Yazgülü Güder Öztürk, mia cognata, era nel secondo gruppo dei death fast nel carcere di Bayrampaşa. Lei è stata una delle 6 donne che sono arse vive nel massacro delle prigioni del 19 dicembre. Mia sorella Hamide era nel quarto gruppo dei death faster, diventata martire il 10 settembre 2000.
Ayten, hai trascorso 10 anni della tua vita in prigione, non consecutivamente. Ce ne vuoi parlare?
Anch’io ero in una delle prigioni che sono state assaltate durante il massacro del 2000. Sono stata nella prigione di Umraniye due anni e mezzo, e rilasciata poco prima del massacro, ad ottobre.
La prima volta sono stata arrestata con l’accusa di scrivere in un giornale socialista. Denunciavo i fatti di cronaca che vedeva imputato lo Stato. Prendevo parte a campagne che riguardavano molti problemi sociali dettati dal capitalismo, soprattutto droga, alcol e prostituzione. Lavorando come giornalista poi ho preso parte anche in diverse associazioni democratiche.
Gli anni Novanta in Turchia sono stati brutalmente caratterizzati dalla repressione dei rivoluzionari con massacri e scomparse di persone, io come molti altri, ho deciso di andare a vivere all’estero e – avendo origini arabe – sono emigrata in Siria. Mentre ero lì, è morta mia madre nel 2002. Poi, durante la guerra in Siria, la vita era molto difficile anche lì così ho pensato di spostarmi in Grecia, dove le condizioni sembravano più accettabili. Durante i sei mesi del rapimento e di tortura, è molto mio padre.
Cosa ti è successo? Che giorno era e perché eri in Libano? Come ti hanno preso? Dov’era Hezbollah?
La guerra in Siria iniziava a diventare più intensa e quindi stavo pensando di andare in un altro paese. La Grecia sembrava il più facile da raggiungere e lo volevo fare passando per il Libano con un passaporto falso. Emigrare in un altro paese con un passaporto falso è molto facile in Libano. È una pratica che si fa quotidianamente. Non ci sono rischi di solito. Invece, con il mio passaporto ci sono stati dei problemi. L’8 marzo 2018 le autorità libanesi mi hanno trattenuta in aeroporto. Sono trascorsi sei giorni prima che arrivasse la polizia turca.
Mentre la polizia libanese mi interrogava ho subito dichiarato di essere una rivoluzionaria e che ero ricercata nel mio paese. Ho scongiurato che non avvisassero le autorità turche perché avrebbero potuto anche uccidermi. Ho pregato di contattare le persone che conoscevo in Libano, gente democratica e anche dei membri di Hezbollah. Ma sono stata ignorata. Il pomeriggio del 14 marzo entrò nella mia cella un signore che si è voluto fate una foto con me. La notte stessa sono stata bendata, incappucciata e ammanettata con le braccia dietro la schiena e portata via. La polizia libanese sembrava molto compiaciuta di come stavano andando le cose, sembravano entusiasti e felici, mentre io gli ripetevo che stavano commettendo un crimine. Non potevo vedere dove mi stavano conducendo. Quando ho sentito una persona che parlava turco ho capito che la consegna era avvenuta. Non ho sentito altre voci all’infuori di quella durante tutto il viaggio. Quando siamo atterrati e siamo scesi dall’aereo, ho iniziato ad urlare, ma mi hanno messo le mani davanti alla bocca per evitare che qualcuno mi sentisse.
Dalla discesa dell’aereo fino all’entrata in cella avrò percorso circa 15/20 passi. Non potevo capire bene la direzione perché mi spingevano e mi facevano camminare anche a destra e a sinistra per disorientarmi.
Appena entrata in cella mi hanno salutata: “Benvenuta nel tuo paese, benvenuta, ti conosciamo e sappiamo tutto su di te. Vogliamo solo che tu confermi delle cose”.
Ho subito detto che non avrei mai parlato con loro in un centro di tortura. Ho detto che non avevo nulla da condividere con dei torturatori.
Per quanto riguarda Hezbollah non penso che sapessero quello che mi stava accadendo. Lo escludo quasi con certezza. L’ipotesi più probabile è che ci fosse stato un collegamento solo tra governi. Ad ogni modo, anche se Hezbollah lo avesse saputo, in queste circostanze non avrebbero potuto fare molto, né avrebbero potuto prendere delle decisioni che avrebbero comportato la mia liberazione. Se era coinvolta il governo turco nessuno avrebbe potuto opporsi.
La tua storia di tortura, nelle modalità è molto particolare perché implica anche un rapimento da parte delle autorità dei servizi segreti turchi (MIT) in un altro paese. Ma non è una sorpresa il ricorso diffuso e sistematico a brutali metodi di interrogatorio. Tutti sanno che questi metodi sono utilizzati fino agli alti vertici. Il paradosso è che nessuno ne parla se non vacuamente. Sembra che la tortura, concepita per farci parlare, faccia tacere chi la pratica.
Ci sono molte persone in Turchia, perché volevano proprio che tu parlassi e perché volevano la tua firma per confermare i loro complotti? Perché sono stati così accaniti contro di te?
Sì, ci sono moltissime persone che provengono da famiglie democratiche in Turchia e che continuano a fare un lavoro rivoluzionario. In realtà penso che quando sono venuti a prendermi a Beirut loro non sapevano chi fossi con esattezza ma avevano la certezza che avrei potuto collaborare con loro. Se avessero rotto la mia forza di volontà, molte altre persone innocenti avrebbero potuto essere coinvolte.
La loro intenzione è di creare un esempio di collaborazione con la polizia segreta da parte di un rivoluzionario per distruggere nel popolo la speranza di un cambiamento, di una rivoluzione. Con me ci hanno provato ma non ci sono riusciti.
Prima non era solito che la polizia turca utilizzi questi metodi che hanno usato con me: rapimento e tortura per collaborare. È dal 2016, dopo il tentato colpo di stato, che le cose sono peggiorate e hanno intensificato questi metodi di terrore.
A differenti periodi storici nella storia della Turchia, corrispondono differenti metodologie di agire in modo repressivo sul popolo. Ad esempio, negli anni Novanta c’erano molte sparizioni di persone. In questi ultimi anni ci sono casi di persone che vengono rapite e intimorite con la tortura per fargli firmare false dichiarazioni contro dei figli del popolo. Dopo il mio rilascio ho fatto delle ricerche e sono venuta a conoscenza di 35 persone che avevano subito il mio stesso trattamento ma nessuna di loro riesce a parlare e a denunciare ciò che gli è successo, come sto facendo io ora. È molto difficile e bisogna avere molta forza per poter rivivere e spiegare, ad ogni intervista, ciò che ho vissuto.
In periodi come questo il governo, quando non è capace di continuare ad esercitare il potere, è costretto a usare questi metodi illegali e illegittimi per sopperire alle crisi economiche. In questo momento stanno attaccando la popolazione e i rivoluzionari.
Cosa hai provato quando eri sotto sequestro, non sapevi dove ti trovavi ed eri torturata costantemente?
La prima cosa che ho pensato non è stata chiara. Ero insicura, non riuscivo a capire. Ma a mano a mano che passava del tempo e che mi volevano far collaborare ho cercato di trarre forza pensando a mio fratello, a mia sorella, a mia cognata, al mio popolo e mi sono data forza.
Ho sempre pensato al mio onore, a non macchiarlo. Non volevo essere una collaboratrice. Ho cercato di essere forte e prendere forza da questi pensieri. Non c’era scelta per me: o resistevo o morivo. Qualsiasi cosa mi facevano non potevano rompere la mia forza di volontà. Non potevo perdere la mia dignità né le mie idee. Stavo difendendo le mie idee, non importava più quello che facevano al mio corpo.
Vengo da una famiglia che non si è mai arresa. E questo è quello che gli ho fatto assaggiare alla polizia: non li ho mai riconosciuti come autorità e ho mantenuto la linea e l’onore della mia famiglia. Erano molto arrabbiati con me perché non potevano avere successo con nessun metodo di tortura.
La prossima volta ci penseranno meglio prima di rapirmi. Non potranno mai ottenere nulla da me.
Durante questi sei mesi sei stata costantemente torturata sia fisicamente che psicologicamente. Hai ricevuto cure solo per poter continuare ad essere torturata. Dopo aver provato di tutto su di te, non sono riusciti a piegarti né a spezzarti. Ma quali sono le tue condizioni di salute ora?
Dopo la detenzione di sei mesi nel centro di tortura, sono dimagrita 25 chili. Un giorno, mi hanno fatto uscire dalla cella e portata fuori in macchina sempre bendata e incappucciata. Mi hanno lasciata in mezzo ad una strada vicino ad una caserma della polizia. Mi hanno arrestata immediatamente e in cella le mie compagne hanno contato 898 cicatrici sul mio corpo. Ero ridotta così male che non mi hanno voluta rilasciare subito, anche se non c’erano capi d’accusa contro di me. Dal 10 giugno 2021 sono agli arresti domiciliari con due sentenze a vita dopo un processo farsa.
Prima che venissi rapita in Libano, ero ricercata in Turchia, ma senza un capo d’accusa specifico: avevano solo aperto un file su di me, come li aprono su chiunque. Spesso questo tipo di pratiche giudiziarie in Turchia si risolvono semplicemente durante la prima udienza. Evidentemente quando ero all’estero qualcuno aveva rilasciato una dichiarazione su di me. Durante i sei mesi in cui sono stata rapita sono stata supportata da moltissime persone all’esterno che mi stavano cercando e che stavano denunciando la mia scomparsa. Questo fatto è stato considerato come prova della mia colpevolezza e hanno creato un nuovo documento a mio carico, questa volta con accuse più pesanti e che hanno fatto sì che io fossi condannata.
Dalla prigione ho continuato a lottare con i miei legali cercando di far emergere le ingiustizie e le menzogne con le quali stavano organizzando la mia condanna. Grazie alla forte solidarietà e alle mie ferite ormai quasi guarite apparentemente, mi sono stati concessi gli arresti domiciliari.
Anche se molti pensano che questa situazione di reclusione in casa sia meglio che in carcere, posso assicurare che non è così. Ci sono privazioni come in carcere e per me è difficile anche spostarmi per ricevere le cure in ospedale quotidianamente.
Perché sostieni che gli arresti domiciliari sono esattamente come il carcere? Cosa può accaderti? Hai timore di qualcosa?
Non sono qui in Turchia da molto tempo e ciò che mi intimorisce di più è che possano creare ulteriori documenti o prove false contro di me. Ho il sospetto che stiano cercando di corrompere qualcuno per fargli rilasciare delle dichiarazioni che mi riguardino.
Questa cospirazione potrebbe risolversi in una bolla di sapone, potrebbe esprimersi in pressioni, ancora torture, arresto…non so.
Sanno dove trovarmi, sono difronte ai loro occhi ogni giorno. Possono entrare e fare irruzione in casa in ogni momento e per qualsiasi motivo: possono far finta di cercare qualcuno o qualcosa. Qualsiasi scusa potrebbe essere creata contro di me. E se anche fossi di nuovo arrestata torturata, processata e poi rilasciata, avrei ancora trascorso anni della mia vita in carcere senza motivo.
Riguardo all’indagine investigativa del 15 ottobre, più di cento persone sono state coinvolte. Molte delle quali sono state arrestate, altre rilasciate. Cosa ne pensi di questa maxi-indagine? Tu sei stata coinvolta in qualche modo?
Il 15 ottobre c’è stata una maxi-retata da parte della polizia di stato contro molti dissidenti politici in Turchia. Ad alcune persone hanno cercato di far fare il mio nome. Hanno chiesto in particolare se fossi intenzionata a tornare in Siria. È per questo che credo che stiano cercando persone che facciano false dichiarazioni contro di me.
Inoltre, durante la giornata del 15 ottobre, quattro blindati continuavano a passare davanti casa e c’era un ingente dispiegamento di poliziotti in tenuta d’assalto che presidiavano la mia abitazione.
Per quanto riguarda ciò che penso io di questa operazione, a livello mediatico ha fatto clangore, ma le accuse non sussistevano e la maggior parte delle persone sono state subito rilasciate, altre andranno a processo ma saranno rilasciate perché non vi è fondamento per un arresto. Penso che anche questo scenario sarà frustrante per loro, dato che non riescono ad arrestare nessuno. Penso che facciano questo tipo di operazione ogni tanto per intimidire e “mostrare potere”.
Tornando ai tuoi problemi di ordine medico, ci dicevi prima che hai difficoltà a ricevere cure. Qual è il tuo statodi salute e le difficolta di accedere al servizio sanitario?
Innanzi tutto, quotidianamente devo fare fisioterapia all’ospedale dalle 13:30 fino alle 16:00. Ho problemi alle braccia perché durante i sei mesi di tortura sono stata spesso appesa in alto dai polsi e ho trascorso molto tempo ammanettata con le mani dietro la schiena.
Per andare ho bisogno di fare un a richiesta scritta all’ufficio preposto per avvisare che sto uscendo e dichiarare dove mi sto dirigendo e perché. Allo stesso tempo anche gli avvocati devono fare una richiesta scritta alla corte ogni volta. Entrambi dobbiamo aspettare il loro permesso prima che io possa uscire. Inoltre, dopo ogni visita devo farmi rilasciare un documento dall’ospedale, mandarlo allo stesso ufficio. A testimonianza che sono stata in ospedale e del motivo per cui sono andata.
Spesso ci mette tempo ad arrivare il permesso della Corte.
A queste sedute di fisioterapia devo aggiungere altre visite mediche che ho ogni mese, ogni tre mesi o ogni sei mesi. Per ognuno devo richiedere il permesso, specificare dove mi reco e quali sono i miei problemi nello specifico. I prossimi appuntamenti con i dottori sono il 6 novembre per l’anemia e l’11 novembre per il dentista.
Ho anche un mioma e devo fare i controlli ogni tre mesi, a volte dei ricoveri in Day Hospital. Il mioma dovrebbe essere rimosso ma ancora non hanno deciso quando fare l’intervento.
Ho anche un nodulo alla trachea ma ancora devo fare la biopsia. Inoltre, ho problemi di stomaco.
Oltre alle difficoltà burocratiche che richiedono moltissimo tempo per i lasciapassare, è anche difficile per me parlare dei miei problemi di salute, scriverli nei documenti per la richiesta dei permessi e anche approfondirli durante le interviste. Sono cose personali, ma che devo forzatamente condividere con tutti per far capire la mia situazione.
Alcune persone sono molto sensibili alla tua storia. Mi hanno chiesto cosa possono fare. Vuoi fare un appello?
Grazie per la vostra vicinanza. Prima di tutto preparerò uno scritto per inoltrare una petizione da sottomettere anche alla Corte. E la manderò anche a te!
Poi vorrei chiedere a tutti di divulgare la mia storia, e fare richiesta alle associazioni dei diritti umani di fare degli appelli. Anche le associazioni dei medici e dei fisiatri possono dare il loro supporto per il mio caso. Potrebbero essere coinvolte le associazioni femministe inquanto la violenza di stato è una violenza patriarcale e maschilista. Qui in Turchia ci sono delle associazioni femministe ma preferiscono non parlare di queste violenze contro le donne.
Tutti possono denunciare questa situazione sui social media con ogni genere di azione.
Gli arresti domiciliari sono come la prigione: contro la propria volontà di agire, contro la dignità, contro la libertà.
Penso che potremo sconfiggere queste ingiustizie con la solidarietà internazionale, che ha un potere grandissimo!